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Storie di oche e di..spinoni

2 Aprile 2018 di Mario Burani
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Probabilmente erano affamate e prive di forza per potere riprendere il volo verso sud. Poco dopo la mia auto scivolò verso destra sul margine della strada e non riuscì più a rientrare in carreggiata. Per un colpo di fortuna dopo un periodo di tempo che mi parve interminabile, vidi arrivare dall’opposto senso di marcia un fuoristrada che mi pareva di riconoscere. Lo conduceva un mio caro amico cacciatore di Reggiolo che, come immaginavo, si offrì di riportarmi a casa mia a Gualtieri. Si fermò anch’egli incuriosito vedendo il branco di oche sulla neve. Esse tentavano inutilmente di beccare sul manto nevoso cercando di arrivare all’erba per sfamarsi. L’amico mi lanciò un’idea: “portiamo un sacco o due di mais secco perché possano mangiare altrimenti fra pochi giorni moriranno di fame”. Fu una geniale oche 3idea. Subito dopo acquistando il mais, ritornammo sul luogo lasciando vari mucchietti di cereali. Mentre ci avvicinavamo a piedi le oche per paura e a fatica corsero al lato opposto al nostro non riuscendo evidentemente a volare.  Il giorno dopo l’amico mi telefonò felice a casa dicendomi che le oche avevano mangiato e invitandomi ad aiutarlo per portare altro mais nel pomeriggio dello stesso giorno. Dopo pochi giorni quando gli uccelli avvistarono il fuoristrada, non fuggirono più dal luogo ove posavamo i cereali. Si allontanarono con sussiego come vecchie signore quasi che non volessero dare troppa confidenza agli umani. Avevano capito che con noi arrivava il cibo e la salvezza. Dopo circa una settimana l’amico mi telefonò dicendomi che quella mattina le oche erano sparite, probabilmente ripartirono nella notte essendo riuscite a prendere il volo. Mi disse che la sera prima quando egli era andato a spargere il mais queste improvvisamente si erano messe tutte a cantare sbattendo le ali, quasi che il loro fosse un saluto e un ringraziamento. Pensammo, pur senza prove, che esse provassero un sentimento di gratitudine che di solito ritenevamo riservato agli esseri umani e non ad altri esseri viventi.  L’episodio mi colpì molto e ancora oggi non l’ho dimenticato.

« Il grande freddo - pag 1 | Il Fato di un'oca della neve - pag 3] 30 Dicembre 1989.La sera antecedente a quella data incontrai al Bar del mio paese un vecchio cacciatore, figlio dell’ultimo cacciatore di professione del Po. Persona squisita, corretta e anche ottimo tiratore. Aveva sempre dimostrato simpatia e amicizia nei miei confronti. Quella sera mi rivelò che un giovane cacciatore locale aveva “alzato” una beccaccia sulla nostra riva del Po, a fianco dei resti di un antico pennello che continuava una massicciata creata dopo la grande alluvione del 1951. Queste le sue parole: “Mario prova ad andare lì domani mattina con il tuo spinone Rambo che so essere molto bravo e portato per la caccia alla beccaccia. Se nella notte non nevicherà o se la beccaccia non sentirà l’odore di neve nell’aria, facilmente potresti ritrovarla nello stesso posto. Altrimenti vorrà dire che se ne sarà andata durante la notte”.  Ringraziai per la notizia e per la fiducia riposta in me e nel mio grande spinone bianco, dai dolci occhi e dalle orecchie colore del sole che tramonta. Conoscevo bene il posto indicatomi nel quale molti arbusti di rosa canina e la corona dei salici che seguiva il fiume, limitavano molto la visibilità di tiro. Per questo motivo non portai con me il nuovo semiautomatico che aveva strozzatura un po’ accentuata, ma una doppietta che un amico mi aveva ceduto a saldo delle numerose difese in sede penale da me svolte in suo favore. Il fucile aveva strozzature più confacenti al tiro di stoccata nel fitto anche se in verità non l’avevo quasi mai usato. La mattina dopo arrivai con l’auto a circa un km a monte del pennello ormai quasi distrutto dal tempo e dalla corrente. Quando parcheggiai l’auto era ancora buio ma non nevicava e il terreno era completamente sgombro di neve. Scesi, tolsi la doppietta dal fodero e inserii in prima canna una cartuccia di cartone dell’8, in seconda misi più prudentemente una corrazzata del 7. Visto che dovevo costeggiare la riva del grande Fiume, poteva esserci l’opportunità di sparare ad un Germano Reale o comunque ad un’anitra di altra specie certamente con un corpo e un pennaggio più coriaceo e meno soffice di quello della beccaccia. Feci scendere dall’auto Rambo mantenendolo al guinzaglio fino al sorgere dell’alba. Il Po era aumentato di livello dai giorni precedenti e la corrente era forte. Il cielo era grigio piombo e quindi secondo l’antico adagio “cielo che luce neve produce”. [section_title title=pag 4 »

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